La redazione di Fratello Illuminato, dopo aver letto che Niccolò Pisaneschi, docente filo-criccaboniano, è stato condannato a sei mesi, si trova nella necessità di chiedere alla Procura di Firenze se fosse possibile beccarsi un avviso di garanzia o qualcosa del genere da poter esibire onde scalare rapidamente qualche posizione di vertice in Banca o all’Università. Evidentemente l’avviso di garanzia, l’avviso di chiusura delle indagini o, meglio ancora, una condanna costituiscono elemento essenziale a Siena per gestire qualcosa. Ricordiamo infatti che Niccolò Pisaneschi è il fratello di Andrea Pisaneschi, indagato con lui e Olivetti Reson per le fatturazioni false alla Baldassini Tognozzi e Pontello. E cosa fa Andrea Pisaneschi oltreché il filocriccaboniano anche lui? Il membro del CdA del Monte dei Paschi che oggi presenterà un bilancio disastroso. E di chi sono colleghi i fratelli Pisaneschi? Del Criccaboni, di tutta la cricca riccaboniana e fabbriana nonché dei due futuri membri del CdA di MPS Angelo Dringoli e Tania Groppi (Andrea fra l’altro insegna la stessa materia di Tania Groppi). Nonché della cricca di genii di Via Roma 56, cacciatori di barbari e inghirlandatori di genii. Nonché della bandaccia che imperversa alle Scotte fregandosene della legge e della decenza.
Da tutto quanto precede è evidente che se non hai almeno un avviso di garanzia (meglio una condanna) non c’è versi di avere un posticino ben remunerato. Ecco perché rinnoviamo la nostra richiesta alla Procura di Firenze (di Firenze eh, tranquilli). Anche noi teniamo famiglia!!!
Condannato a sei mesi Niccolò Pisaneschi, docente universitario di Siena
Marzo 29th, 2012 | Note redazionali
1 comment so far ↓
Niccolò Pisaneschi è stato condannato a sei mesi con rito abbreviato dal Tribunale di Firenze.
Visto che ci siamo ricordiamo anche un’altra inchiesta:
Inchiesta G8, Credito Fiorentino: 55 indagati
Tra cui Verdini e Dell’Utri
Finanziamenti e crediti milionari concessi senza “garanzie”, sulla base di contratti preliminari di compravendite ritenute fittizie. Soldi a palate che, per la Procura di Firenze che stamani ha chiuso le indagini su 55 persone, tra cui Marcello Dell’Utri, Denis Verdini, i vertici della Btp di Riccardo Fusi e l’intero Consiglio di amministrazione del Credito cooperativo fiorentino, venivano dati a “persone ritenute vicine” a Verdini stesso sulla base di “documentazione carente e in assenza di adeguata istruttoria”.
Come il fratello Ettore, la nipote Serena, il presidente della Serravalle e avvocato fiorentino Marzio Agnoloni. A guidare il tutto, secondo l’accusa sostenuta dai sostituti procuratori Giuseppina Mione, Luca Turco e Giulio Monferini, c’era lui, Verdini: il politico-banchiere “dirigeva e organizzava l’associazione” mentre Riccardo Fusi e Roberto Bartolomei “ideavano e realizzavano le strategie societarie e bancarie finalizzate ad ottenere l’erogazione del denaro da parte del Credito cooperativo fiorentino”.
L’avviso di chiusura delle indagini preliminari parla chiaro: la nuova inchiesta della magistratura che ruota attorno all’uso fatto della banca ha portato alla luce un impressionante giro di soldi e tutta una serie di contestazioni a partire dall’associazione per delinquere per i vertici del Credito cooperativo e del gruppo Fusi-Bartolomei (Baldassini Tognozzi Pontello in testa) oltre a persone a loro collegate. Fino alle accuse di finanziamento illecito e appropriazione indebita, passando per i reati bancari, tra i quali spicca il falso in bilancio. Di queste accuse dovrà rispondere Denis Verdini, mentre a Marcello dell’Utri è contestata solo l’appropriazione indebita, ma per una somma davvero notevole: 3.200.000 euro.
In totale, secondo la magistratura che ha ricostruito il volume d’affari attraverso l’attento lavoro dei carabinieri dei Ros di Firenze, si parla di “un importo di circa 100 milioni di euro” di finanziamenti deliberati dal Cda del Credito i cui membri, si legge, “partecipavano all’associazione svolgendo il loro ruolo di consiglieri quali meri esecutori delle determinazioni del Verdini”. In sintesi secondo l’accusa, Verdini decideva a chi dare, e quanto, mentre gli altri si limitavano a ratificare “senza sollevare alcuna obiezione”. In alcuni casi poi provvedeva “in favore di se stesso e della coniuge Simonetta Fossombroni”, anche lei raggiunta dall’avviso di garanzia.
A dare il via a questa nuova indagine, la relazione dei commissari di Bankitalia che in 1.500 pagine, allegati compresi, hanno riassunto lo stato di salute della banca di Verdini. E le anomalie riscontrate. Dell’Utri in particolare sarebbe riuscito a ottenere, nonostante una situazione di “sofferenza” bancaria, un affidamento nella forma dello scoperto bancario di 250mila euro, diventati in appena 7 mesi ben 2.800.000, per poi lievitare a 3.200.000. Questo, per l’accusa, era avvenuto senza garanzie.
Scendiamo nel dettaglio. Su proposta del direttore generale Italo Biagini, anche lui indagato nell’inchiesta, il senatore del Pdl avrebbe ottenuto un incremento dell’affidamento a tempo di record: la delibera del Cda del 1/12/2006 gli consente uno scoperto di 250mila euro incrementato a 600mila il 27/12 e incrementato ancora a 1.600.000 il 29/1/2007. A delibera si aggiunge delibera, a soldi si aggiungono soldi. Dell’Utri raggiunge con la delibera del 18/6/2007 la cifra di 2.800.000 euro a cui si sommano 400mila euro con la delibera del 14.9.2009. L’affidamento era stato concesso nonostante Dell’Utri “fosse già esposto nei confronti dell’istituto a fronte dell’erogazione di un mutuo fondiario concesso nel 2004 di 2 miliondi di euro” si legge nell’avviso di chiusura indagini. Mutuo per il quale aveva fatto registrare, come se non bastasse, una posizione apposta ad “incaglio” con cinque rate arretrate, “dopo aver toccato punte anche di dieci rate arretrate”.
Nelle carte racchiuse in oltre 60 faldoni ci sono anche le consulenze “orali” fatte da Verdini ad altri professionisti che, per la Procura, sono inesistenti. Infatti il coordinatore del Pdl torna di nuovo nelle vesti di commercialista – mestiere esercitato negli anni ’80 – per il quale avrebbe fatturato a vari imprenditori una somma che si aggira sui 700mila euro. Di questi 104.000 euro a Maria Antonella Barbetti, legale rappresentante delle Cementerie Aldo Barbetti, anche nota per le sue iniziative imprenditoriali legate al mondo dell’editoria. L’anno successivo alla fattura (datata 12.11.2007) la società rilevò la maggioranza della società proprietaria della testata Corriere dell’Umbria che aveva le edizioni di Arezzo, Siena, Rieti, Viterbo e Maremma.
Il terremoto di stamani ha travolto anche molti avvocati, oltre a Niccolò Pisaneschi, già presidente Antonveneta, indagato con il figlio Andrea, ci sono i legali Pier Ettore e Gian Paolo Olivetti Rason, e l’avvocato Marco Rocchi, difensore proprio di Verdini. Rocchi è indagato in qualità di membro del Cda così come Luca Enrico Biagiotti, Simonpiero Ceri, Franco Galli, Mauro Marcocci e Fabrizio Nucci. Antonio Marotti, Luciano Belli e Gianluca Lucarelli invece sono indagati nelle vesti di componenti del collegio sindacale, e Italo Biagini in qualità di direttore del Credito cooperativo fiorentino. Partecipavano all’associazione, secondo l’accusa, anche personaggi ritenuti vicini a Fusi e Bartolomei come Monica Manescalchi, Emanuela Corsini, Leonardo Rossi, Umberto Gambarelli, Giancarlo Cecchi.
Tra gli altri episodi contestati, ci sono i 12 milioni di euro concessi alla Stif srl, Società toscana industra del freddo. Il Cda del Credito cooperativo avrebbe, “d’intesa con Fusi e Bartolomei, su proposta del direttore generale Biagini” concesso un affidamento per questa somma “nella forma di scoperto di conto corrente ipotecario con delibera de 17/5/2010 nonostante che la società affidata a tale data fosse già esposta con il sistema bancario per 34 milioni di euro” e nel confronti del Credito cooperativo per 5.700.000 euro a fronte di n debito garantito solo per 2.300.000 euro. Stesso metodo, secondo l’accusa, messo in piedi con Cassis srl, Alfieri srl, Olympia srl e il Castello di Signa srl. Di quest’ultima società la legale rappresentante era la nipote di Verdini, Serena, anche se per la Procura “gli amminsitratori di fatto” erano sempre loro, Fusi e Bartolomei.